venerdì 25 febbraio 2011

Strumenti del writer

Il writer si avvale principalmente di due strumenti per scrivere: i marker (ossia i pennarelli), e gli spray (ossia le bombolette).
All’inizio i primi writer newyorchesi utilizzano i pennarelli per le loro tags, in particolar modo la marca Magic marker. Con il tempo si sviluppano vari modelli di diverse misure e forma, che permettono di avere un tratto di volta in volta differente; questo nei primi anni è ottenuto con vari mezzi di fortuna e invenzioni, sfruttando ad esempio i cancellini della lavagna come punta. Inizialmente vengono adottati anche i prodotti per lucidare le scarpe: si stacca la punta di spugna della confezione e si riempie di inchiostro il serbatoio.
Oltre ai pennarelli si possono utilizzare anche gli inchiostri (ad esempio il Nero d’inferno a Milano negli anni ’90, tintura per pellami usata anche dai calzolai). Il tratto costituisce un’ importante componente stilistica, e maggiore è il tratto, più grande sarà la firma e dunque l’impatto della stessa sulla superficie (anche a confronto con altre su un muro completamente pieno).
Le bombolette, invece, vengono brevettate nel 1943, ma si diffondono negli anni ’50. La bomboletta è un’innovazione fondamentale per il writing: permette infatti di realizzare grandi scritte in breve tempo, è portatile, comoda e semplice da usare e facilmente reperibile. In un primo momento le bombolette disponibili sono piuttosto diluite, quindi bisogna utilizzare il colore in grande quantità e stare molto attenti per evitare imprecisioni nel pezzo. In seguito, alcune marche si specializzano appositamente per i writer, mentre altre prendono le distanze dal fenomeno. Paradigmatico il caso di Montana, azienda spagnola leader nella produzione di spray destinati al writing, che si diffonde in tutta Europa dal 1995: per i writer realizza appositamente la linea Hardcore, con tinte molto coprenti e  pressione alta. Le bombolette oggi si trovano in una grande varietà di assortimento: dai 10 ml ai 750 ml, ad alta o bassa pressione, con diversa capacità di copertura o reazione alle condizioni climatiche. Sono caratterizzate, a differenza delle altre bombolette sul mercato, da una ciambella di plastica intorno alla parte superiore che indica il colore. Inoltre si sviluppano e diventano di uso comune intorno agli anni ’80, una serie di tappini differenti, da poter applicare alla bomboletta stessa, che permettono di regolare lo spruzzo e dunque  di avere differenti tratti, da pochi millimetri ai venti centimetri: i cosiddetti fat, ad esempio, con un tratto molto grosso, danno la possibilità di scrivere molto più veloce e più grande. Diversi sono anche gli accessori disponibili: guanti, sacche, calamite contro la rumorosità delle palline interne alla bomboletta, spray per eliminare il colore dai vestiti: un vero e proprio business.
I writer si avvalgono a volte anche di un altro utile strumento, il blackbook. Si tratta sostanzialmente di un album di schizzi, uno sketch book, sul quale i writer preparano i loro pezzi, studiandone un abbozzo e perfezionandolo. Spesso i disegni sono la base necessaria per il lavoro su muro, in altri casi, invece, sono solo un modo per fissare un’idea. Lo studio preliminare al pezzo finito viene considerato fondamentale: serve infatti per porre l’attenzione sullo stile, sulla combinazione tra i colori, potendo provare diverse soluzioni e sperimentare, riflettendo e impiegando più tempo rispetto all’azione su muro. In alcuni casi lo schizzo si rivela invece solo una base, e si agisce su muro con maggior libertà, seguendo anche l’estro del momento. I blackbook, nei primi tempi del writing, esistono ma non sono considerati un requisito necessario e molti “outlines” vengono eseguiti su fogli volanti di quaderno, essendo i writer studenti; oggi sono più presenti, anche per questioni di business, dato che si trovano in commercio appositamente per i writer.

sabato 19 febbraio 2011

Gallerie e street art: oggi

La situazione attuale è molto attiva: come già abbiamo visto, ultimamente ci sono molte iniziative di writer o street artist che entrano in un circuito più ufficiale: diverse sono le esposizioni, le performance collettive, le feste che vengono organizzate ogni anno, in Europa e Italia.

Uno degli eventi più interessanti, che ha segnato l'ingresso di diversi artisti di strada in galleria, è stata la mostra al PAC di Milano del 2007 “Street art Sweet art”. In questa occasione, circa trenta artisti provenienti da diverse esperienze sono stati chiamati ad intervenire negli spazi “asettici” del padiglione con opere che hanno la loro origine in strada: hanno partecipato writer della “prima generazione” (Atomo, Airone, KayOne, Rendo, Mambo, Led, Basik, Eron) e altri, che sono oggi i protagonisti della nuova ondata di street artist (molti dei quali inseriti nel sistema dell’arte “ufficiale”, ma che proseguono anche in strada), come Microbo, Bo 130, Blu, Ericailcane (questi ultimi dipingono l'estreno del PAC), Ozmo, Abbominevole, Pao (l’artista dei “panettoni-pinguino”), Pus (l’artista degli scarafaggi), Bros, Ivan il “poeta di strada”, Tv Boy (l’artista del bambino con la testa-televisore), Sonda, Sea, Dem, Nais, Gatto. Accanto all’esposizione di opere, viene creato anche una sorta di “Bazar pop up” che riunisce oggetti, gadget, accessori, capi d’abbigliamento “griffati” e creati dagli artisti in tutto il mondo.

Passando a eventi ancora più recenti, nell'estate 2010, sempre a Milano, si è svolta la “Forma delle reti”: una performance di 24 ore (e una mostra aperta al pubblico nei giorni seguenti) di diversi artisti all’interno del Chiostro del Museo nazionale della Scienza e della Tecnologia: una possibilità per mettere a confronto artisti diversi, che operano oggi con differenti tecniche, ma che partono da una comune base nel mondo del writing. Vengono ospitati: Mambo, Senso, Airone, Atomo, Gatto Nero, Flycat, KayOne, Rendo, Sea Creative, Tawa, El Gato Chimney, Ericsone, Vire, Raptuz, Mr. Wany, Schiavon, Leo, Max Gatto; l’intento è quello di fornire uno spazio, un’opportunità originale di dialogo con il pubblico e nuovi punti di vista, tramite la sperimentazione e la contaminazione tra branche (arte e scienza), temi, forme e linguaggi diversi.

Sempre a Milano esistono alcuni spazi, come ad esempio Spazio Concept, (http://www.urbanpainting.info/)molto attenti alla scena della street art milanese, italiana ed internazionale, che viene presentata attraverso numerose mostre e performance dal vivo. L'ultimo esempio è terminato pochi giorni fa:  un "Urban live painting", con performance live di Pixel Pancho, Sonda, Zed1, Seacreative, Btoy e mostra delle opere degli stessi e di Erik Hikups, Orticanoodles, Guildor, Marco Teatro, Mambo e Master.Altri casi ancora sono quelli di gallerie che prendono sotto la loro "ala protettrice" degli artisti, portando avanti insieme un percorso espositivo (ad esempio, la Galleria Prospettive d'Arte di Milano e Pao).
Alcuni artisti riescono così non solo ad entrare in questo sistema ufficiale, affiancando spesso all’attività di street artist quella di grafici o nel campo dell’animazione, ma giungere anche alla vendita delle proprie opere, ottenendo quotazioni molto alte: è sempre più frequente il caso di lavori venduti all’asta o sul mercato che vengono considerati vere opere d’arte riconosciute e quotate, lontano dall’essere percepite come mero atto vandalico.

 Segnalate, commentando, ulteriori mostre o iniziative interessanti!

venerdì 18 febbraio 2011

Gallerie e street art: le origini

Iniziando la nostra analisi dagli esempi più precoci, negli anni Settanta il primo tentativo di trasferire il writing dalla strada alla tela si deve a Hugo Martinez, che, nel 1972, fonda un collettivo di artisti writer chiamato UGA (United Graffiti Artists); di questo primo gruppo fanno parte, tra gli altri, Stitch I, Co-Co 144 e Charmin. Tra le varie esposizioni, nel 1972 si presentano per la prima volta al City College, nel 1973 alla Razor Gallery, dove i primi graffiti su tela sono messi in vendita, nel 1975 all’Artist Space di Soho. L’UGA rimarrà attiva per alcuni anni, e sarà uno dei punti di riferimento più importanti per molti writer.
Parallelamente, dopo i primi esperimenti di inserimento in galleria, diversi writer sentono il bisogno di dimostrare che la loro è vera arte e di ottenere un riconoscimento più ampio, espandendosi oltre la strada: tra questi ad esempio Lee, di cui si tiene una mostra “monografica” nel 1979 alla Galleria La Medusa di Roma, presentata da Bruni e Buzzati Traverso.
Nella stessa direzione si muove la galleria “Fashion moda”, nata nel 1979 nel South Bronx per iniziativa di Stefan Eins, Joe Lewis e William Scott. Questo spazio viene definito dallo stesso Eins come un “museo di scienza, arte, tecnologia, invenzione e fantasia, come concetto culturale e qualcosa di essenzialmente inedito e differente”, dove tutto può accadere a qualsiasi ora e in qualsiasi momento: diventa subito esclusivo ed unico sia per l’originale arredamento (la decorazione è realizzata da Crash e le pareti interne vengono rivestite di tags) sia per il suo pubblico (pochissimi i newyorkesi di Manhattan, poiché molti hanno paura a spingersi fino a questa zona, ma numerosissima la gente di colore di origine spagnola e sudamericana). La galleria diventa presto famosa e punto di riferimento per tutti i nuovi giovani artisti, mirando a unire la strada con il mondo artistico e a promuovere l’arte spontanea del ghetto, l’arte “priva di cultura”. Tra le prime mostre organizzate, il graffiti show curato da Crash, che riunisce molti writer che eseguono pezzi su tela o muro, dalle tags a opere più complesse; successivamente si tiene una mostra sull’“Ikonoklast Panzerism” di Rammelzee, nel 1980 “Graffiti art success”, nel 1981 e nel 1982 le due edizioni di “South Bronx Show” a cui partecipano tra gli altri anche Futura 2000, A-One, Daze. Nel 1981, la mostra “New York, New Wave”, organizzata da Diego Cortez, presenta opere di diversi artisti e performers tra cui Crash, Lee, Futura 2000, Haring, Basquiat; di quest’ultimo si tiene anche una personale (presentandosi con il nome di Samo) alla Galleria Mazzoli di Modena. Fondamentale è per “Fashion moda” l’invito a “Documenta 7” di Kassel nel 1982: il writing riceve così un riconoscimento ufficiale ed entra nel circuito del mondo dell’arte, distaccandosi dall’illegalità. La galleria si presenta a Kassel come una boutique, esponendo opere di Lee, Crash, Toxic, inoltre sono presenti alla manifestazione anche Haring e Basquiat.
Intanto anche a Soho vengono aperti alcuni spazi “di frontiera” riservati ai “kids”. Il più interessante è la galleria di Tony Shafrazi in Mercer Street, che inaugura la stagione con Keith Haring, Ronnie Cutrone e Donald Baechler. Alcuni writer inoltre (es: Freedom, Lady Pink, Crash) collaborano, decorando oggetti, con la Graffiti Production Inc., laboratorio di produzione e vendita di stampe, magliette e altri articoli, fondata da M. Neulandere e J. Twobin nel 1981.
Anche in Italia si iniziano a vedere i primi ingressi di writer in galleria, seppur all’inizio molto sporadici: nel 1983 si tiene, a Napoli presso Lucio Amelio, una personale di Haring, lo stesso è invitato a decorare il negozio della Fiorucci a Milano; Achille Bonito Oliva presenta Haring, Basquiat e Rammelzee, tra gli altri, alla mostra “La scuola di Atene” ad Acireale; Rammelzee è ospitato anche  a Martina Franca presso lo Studio Carrieri con una personale con opere a spray su marmo e legno, disegni e anche un’automobile completamente decorata.
L’interesse maggiore per il movimento si deve in Italia a Francesca Alinovi (ricercatrice presso il Dipartimento delle arti Visive all’Università di Bologna), la quale cura nel 1982 a Bologna, “Telepazzia”, la settimana della performance, dove vengono proiettati anche video di Haring e Scharf, nel 1984 la mostra “Arte di frontiera: New York graffiti” con la partecipazione di artisti americani, a cui dedica l’articolo, che poi diventerà un libro, “Arte di Frontiera”. A lei si deve la primitiva attenzione al writing e l’innesco del successivo interesse pubblico e fermento artistico anche nel nostro paese.
Next: la situazione attuale.

giovedì 17 febbraio 2011

Gallerie e street artist-writer

Come da gentile richiesta, oggi analizziamo il rapporto tra le gallerie e le istituzioni museali da una parte, e lo street artist o il writer dall'altra.
Innanzitutto si osserva che, soprattutto nei primi tempi del fenomeno, writer e gallerie hanno un rapporto piuttosto conflittuale: da una parte, infatti, i writer avvertono il desiderio di slegarsi dai limiti della strada e veder riconosciuta la propria abilità artistica in un circuito più istituzionale, ma d’altro canto sentono profondamente l’importanza di rispettare le proprie origini. Per molti writer, infatti, entrare in galleria significa snaturare la propria opera, trasferirla ad un supporto “falso”, rinnegare la strada come punto di partenza e sede principale del writing, sottostimare il rapporto con il territorio.
Inoltre, l’azione compiuta in strada permette di sentire il fattore illegale e la conseguente adrenalina, che sono un elemento pregnante del writing, e rappresentano la sua forza e la sua vitalità: c’è così il rischio, trasferendosi dalla strada ad un luogo legale, rilassato ed ufficiale, di declassare anche la qualità artistica dell’opera.
In più, a volte si presenta un elemento di difficoltà di espressione viva e spontanea, poiché la commissione o l’indirizzo della galleria influiscono sulle scelte del writer e sul suo operato, creando una situazione completamente differente dalla libertà di strada.
In altri casi, più fortunati, invece, agli artisti viene fornito lo spazio e il materiale e viene loro lasciata carta bianca: hanno così la possibilità di ritrovare la stessa libertà della strada (o anche maggiore, senza limiti di spazio, di tempo e il fattore rischio), anche se talvolta non la stessa energia. 
Un altro aspetto da non sottovalutare, con l'ingresso in gallerie o nel museo, è quello del pubblico: l’opera sul muro o sul treno si rivolge ad un pubblico molto più ampio ed eterogeneo, seppur spesso involontario, mentre la visita al museo o alla galleria è frutto di una scelta consapevole di determinate categorie di persone, però in numero più ristretto, che limita dunque l’espansione e la vitalità del writing. 
L’arte di strada è inoltre, per sua natura, completamente svincolata dalle logiche di mercato, è arte per tutti, senza proprietari, è gratis e costantemente accessibile, senza orari.
Nonostante questi aspetti, spesso, già dai primi anni Settanta, i writer vengono attratti dalla “sicurezza” della galleria: talvolta in vista di possibili guadagni derivanti dalla vendita delle opere su tela, più generalmente per un desiderio di misurarsi con altre forme e tecniche d’espressione e di venir riconosciuti come veri e abili artisti; ma anche per far entrare questo tipo di arte in un circuito più ufficiale, per far meglio conoscere sia il proprio operato sia il movimento stesso, svincolandolo dal mero aspetto “vandalico”, con cui viene generalmente percepito. In altri casi, l’ingresso in galleria o le commissioni pubbliche possono essere viste come il punto di arrivo di un processo di naturale evoluzione: si parte dalle prime esperienze in strada, si migliora e si evolve fino a fare dell’attività artistica una vera professione ed essere ospitati in gallerie, musei o collezioni più ufficiali. In altri casi ancora le due cose vanno di pari passo: ci si inserisce in un circuito più legale esponendo, ma nello stesso tempo non si rinuncia alle proprie origini continuando anche a dipingere in strada.
Dopo questa prima intro, nella prossima puntata vediamo alcuni casi di gallerie e musei italiani ed internazionali che accolgono l'arte di strada.